Nelle tue stanze di Marzia Spinelli è una coinvolgente
plaquette che si sviluppa sulla rivisitazione poetica-
memoriale del rapporto
madre-figlia, dopo la scomparsa della madre Lina.
Faccio subito riferimento alla forma del testo. La
integrazione tra narratività e lirismo senza acuti e stridori, è la
caratteristica più evidente della raccolta. Il verso è libero. Stilisticamente
a versi brevi si alternano versi lunghi, a volte tanto lunghi da riportarsi
negli accapo, endecasillabi e sottostrutture degli stessi sono ora in evidenza
ora nascosti nel verso lungo. L’aggettivazione è appropriata e misurata, non si
rinuncia alla punteggiatura che aiuta nella lettura ad alta voce, non si
indulge in bellurie.
La raccolta è prefata dal poeta Alberto Toni, che
paragonandola a Fare e disfare - primo
libro di Marzia, del 2009 - nota con acribia “l’assedio di un unico ricordo”.
In versi vivi e pungenti, Marzia riaccarezza gli affetti e rivisita i tempi e i
luoghi del lungo rapporto madre-figlia … “Là nella stanza vuota/cerco
l’arcobaleno della casa/prediletta”. Così prende abbrivio questo diario in
versi.
Dopo la tempesta del lutto c’è l’arcobaleno, nel sereno
l’interiorizzazione dell’amore e del dolore si dà in rivisitazione dei ricordi
a rebours! Se si sperimentano certi effetti distruttivi del tempo, lo si
esorcizza consentendo all’infanzia di riemergere: “mi nascondo al Tempo/ nella
traccia dell’infanzia/mi rintraccia la memoria”.
Notiamo che la poetessa non insegue i ricordi, ma è
“rintracciata” da essi, come non manca di sottolineare anche Alberto Toni.
I versi iniziali sono da discesa agli inferi, in essi c’è
tutto il motivo del libro … versi precipitao liquidi, perché c’è bisogno di
lavare, cancellare i rimorsi e il dolore. La notte porta voci fluviali e la
poesia che si fa notturna è un traghettamento del sé nel fiume dell’oblio:
“Notte, eri voce del Metauro/ a traversare la pietra
rifatta/ a cancellare d’ogni paese la pena”.
La poesia della Spinelli ha consonanze caproniane, si pensi
a Il seme del piangere, dedicato alla
madre del poeta, Anna Picchi, ma ritrovo analogie anche con i versi de Gli anni
tedeschi: “Quali lacrime calde nelle stanze?/ Sui pavimenti di pietra una
piaga/ solenne è la memoria”.
Interessanti, del libro della Spinelli, le citazioni in
esergo. Gli eserghi hanno un’importante ricaduta sulla poesia e ne configurano
il doppio registro poetico e metapoetico. La citazione più vicina, forse, allo
spirito di questa raccolta, è nei versi di P. P. Pasolini alla madre: “Tu sei
la sola al mondo che sa, del mio cuore/ ciò che è stato sempre, prima d’ogni
altro amore”. Ci sono in esergo anche gli splendidi versi di Shakespeare: “Tu
sei di tua madre lo specchio,/ ed ella in te rivive”.
L’identificazione madre-figlia, quasi al culmine di questo
processo di riappropriazione fagico-simbolica del corpo scomparso, nel suo
volto riflesso, è il tema della XXII poesia; essa viene in luce quando Marzia
si chiede: “è il volto mio o il tuo?”; ma ci sarebbe da obiettare col Borges di
una poesia del 1971: “Lo specchio non replica nessuno/ quando la casa è
deserta”.
Nella bellissima poesia
Negozio di pietre (n° IX) la reiterazione del “come te” sovrappone due
rapporti parentali, il proprio e quello tra un’altra madre e un’altra figlia
“che fuma e vende quarzi”; in una continua inversione di ruoli, quasi
cinematografica, ora è quella figlia a essere come la madre della poetessa, ora
è quell’altra madre a somigliare alla madre di chi scrive. La figlia padrona,
“dice buon giorno come te”, “dice grazie come te”, “ha i capelli come i tuoi”.
Il paese e la valle furono, per Marzia, sempre una trincea,
e in ogni altro luogo ci fu sempre uno specchio in cui cercare i luoghi e il
volto della madre per riconoscersi, filo d’Arianna per salvarsi nel labirinto.
Questa silloge è un memoriale. Quando si istituisce un
memoriale, anche poetico, si compie un’operazione liturgica, se è vero che i
memoriali sono evocatori del mistero. La casa, la stanza della madre, gli
oggetti divengono sacri. Reliquie gli oggetti concreti, come quelli dei
ricordi: spighe, ciliegie, rami secchi d’ulivo. L’amore è rivisitato nei
dettagli con timore e tremore, sono sacre anche le briciole dei pasti che
venivano buttate via, come le carte, i nastri a nodo stretto che bisognava
tagliare; metafora questa, pure, della necessità del distacco affettivo.
L’elaborazione del lutto – “clone di vita su oggetti” - si
dà perciò in oscillazione di canto tra le Furie e le Eumenidi, con riferimento
personalistico alla mitopoiesi della tragedia. L’amore fonda e dà sapore alla
vita; esso come il cibo si condivide, si spezza come pane eucaristico. È “una
fatica storica l’amore”, se “si sbriciola” ci si prepara “per un altro pasto”.
Ora, nella casa degli affetti rimangono “il parquet divelto” , “le foglie rosse
della tua stanza”, la stanza di Lina è come se fosse l’unica.
Ipotizzerei una qualche somiglianza - proprio per il
continuo rimando agli oggetti, alla “poesia delle cose” – tra i versi della
Spinelli e quelli del Gozzano de La signorina Felicita o de L’amica di nonna
Speranza; anche in Gozzano ci sono una casa, stanze, un giardino e i ricordi
che scendono in “un cuore amico”. Ritrovo, forse nella poesia di Marzia, un po’
del Gozzano dei versi - “Silenzio! Fuga dalle stanze morte!/ Odore d’ombra!
Odore di passato!/ Odore d’abbandono desolato!” –, le stesse atmosfere dolci e
luttuose, sebbene ci sia più dolore e meno disincanto nella Spinelli, per la
prossimità e concretezza del lutto. Il richiamo al “correlativo oggettivo”,
oltre che al grande Eliot, fatte le debite differenze, potrebbe connettere
questa poesia alla linea lombarda; per quanto i lombardi mostrino a mio avviso
una costante minimalista, nel tendere ad una oggettività che mira in molti casi
ad espungere la soggettività. Marzia cerca nelle cose, per converso, le
esperienze condivise, attiva il transfert quando lavora di scavo nella ricerca
delle motivazioni dei sentimenti d’amore pace conflitto. Ogni tipo di amore,
anche quello genitore-figlio, si nutre di conflitti, che a volte feriscono, a
volte uccidono la relazione e perfino l’oggetto d’amore. Il richiamo ai
complessi di Edipo o di Elettra, alle nascoste pulsioni sado-maso, cannibaliche
o aggressive, ci riportano inoltre agli studi della relazione del bimbo con il
seno materno, condotti da Melanie Klein, che stanno alla base delle dinamiche
comportamentali anche degli adulti.
Nel testo della Spinelli c’è indugio nel sottoporre gli
oggetti a singolare nominazione:
con essi, attraverso di essi, in gioco ambivalente di
nascondimento e svelamento dello spirito della madre come dall’Ade; ombra che
pare Euridice in lotta profonda contro l’oblio e Thanatos.
Il sogno ha un ruolo significativo e dirompente, nella vita,
come nell’arte. Nel componimento XVII Marzia sogna la madre, la vede, cerca di
abbracciarla come Enea il padre Anchise agli inferi … il fantasma è
inafferrabile. Cogliamo in questa poesia, quindi, influssi orfici della
letteratura antica.
La morte dei genitori ci fa morire con loro, ma anche ci
risveglia, ci fa rinascere con un formicolio agli arti addormentati. La
poetessa in “un’assenza di attrazione” per quell’ombra, in movimento
compensativo rispetto all’abbraccio andato a vuoto, si dichiara e dichiara come
con un lapsus: “Dovrei essere anche senza di te”.
Il tema dell’identità, dell’unità e della dualità a partire
della nascita, che si prolunga psichicamente in età matura attraverso il
distacco, il tema dell’autonomia della persona, del suo sviluppo, dunque, è
quello del suo stesso prodursi in emersione, come dal nulla. L’identità non è
mai compiuta.
Nella spirale dei ricordi condivisi, oltre la morte, la
poesia entra in scena sempre da un retroscena, dietro cui poi si nasconde, un
rimosso da far riaffiorare, qualcos’altro da obliterare, perciò le immagini
sono come coperte da nebbia; avviene così anche nell’Odissea o nell’Eneide
quando le ombre dell’Ade appaiono velate agli eroi visitatori. L’io è in quella
nebbia, che è propria di un rimembrare disturbato e sofferto. Occorre lottare
contro fantasmi interiori, sensi di colpa, rimozioni, per cui il ricordo si
frange come si frange il cuore, si sposta stordito e ondivago su luoghi e su
oggetti residuali, tra sincroniche esperienze del passato e del presente
“chiuse come urna”.
Nel testo XIX, le colpe, il senso di colpa, “diventano
preghiere” … chi altro può salvarci, se non un Dio, dal peccato originale,
dalle colpe parentali?
Nella poesia XX, anche il secolo in cui si è vissuti con la
madre, il Novecento, è curvo e orfano. Anch’esso si ripercorre mnesicamente e
ci nutre di Storia “nel guscio (…) dei
ricordi”. Sembra esserci qui un cenno di poesia civile, un tentativo simbiotico
d’introdurre una chiave ermeneutica per intendere il peso luttuoso della
Storia, la possibilità di penetrare il senso comune di eventi personali e
trans-personali: “la guerra, il matrimonio, la mia nascita/ il diario comune di
ragazza”.
Il Tempo, spesso evocato come convitato di pietra, a volte
in lettere maiuscole, con e come nella poesia di Borges in esergo - è associato
al “sospetto” per la sua natura di “enigma”.
Scrive Marzia: “Ascolto la voce del Tempo/ in questo tempo
informe” (XXII)
“Nel tempo che dormiamo c’è un arresto … della morte” (XIX).
Il motivo del tempo nutre di riflessività questo libro, che
è ben più di un’elaborazione poetica del privato. La maiuscola, con cui “Tempo”
è spesso scritto, ne indica una significazione sacrale; la sua marmorea
incombenza, come l’Ananke del tragico greco, ne fa, come già presso i greci,
una divinità che non può essere placata con sacrifici; esso è ciò a cui non ci
si sottrae.
Al tempo come alla Necessità, ad Ananke (al Fato)
sottostanno uomini e dei.Nella poesia XIV la poetessa dichiara:
“Ora so che è semina il Tempo/ porta tutto a vendemmia,
anche le stelle”.
Come nell’Ungaretti del
Sentimento del tempo, al di là dell’inarrestabile “divenire” eracliteo o
di ogni “impermanenza” induista-buddhista, conta il fermo legame con il
passato, in particolare quello che faceva del poeta un “uomo di pena”.
La pena, anche nella poesia della Spinelli, è sentimento del
tempo.
Adorno notava in
Minima Moralia che “L’elemento storico, nelle cose, non è che
‘espressione della sofferenza passata’”.
Nell’ultima poesia, scopriamo che anche la Primavera non cela “il
dolore”, non distoglie i tarli, né il
“gelo del Tempo,/ quel battito fantasma/ che non si commuove” che “non
s’accorge mai della ruggine”; essa, la ruggine – scrive Marzia – non si stacca “dal suo ego/ ciclotimico,
dalla sua durata …/ Quanto alla nostra/
il Tempo ci passa sopra/ forse neppure la registra”.
Nondimeno, aggiunge Marzia, “una scaglia di stupore”
confonde il Tempo”… “chiede chi siamo”.
Roma 21-12-2012
Rivisto il 02-07-2013
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